Tre anni fa in questo periodo fui dimesso dal Policlinico di Bari.
Ogni volta ho sempre ricordi diversi, perché ognuno di quei giorni fu una prova di pazienza, forza e coraggio con me stesso che in qualche modo mi è servita per diventare quello che sono oggi.
C’era un momento quotidiano di quel ricovero che rappresentava per me il picco d’ansia più difficile da gestire.
Mi svegliavano alle 8 per rifare il letto e mi spedivano nel corridoio, io non facevo che fare avanti e indietro fino a quando i medici e gli specializzandi non iniziavano il giro delle visite.
Mi preparavo sempre con cura perché detestavo l’idea di sentirmi e vedermi malato.
A partire da quel momento tornavo a letto, ma poi l’ansia mi spingeva a tornare nel corridoio.
Guardavo oltre la porta della stanza per capire in quale camera fossero, a cercare di intercettare lo sguardo di qualcuno di loro per ricevere un cenno di conforto.
Li osservavo avvicinarsi alla mia stanza, una truppa di camici bianchi con le loro cartelle cliniche, in quei fogli i miei esami, i miei referti, il mio destino.
Un passo dopo l’altro venivano verso di me, ogni mattina, per richiedere un esame in più, per espormi il quadro clinico, per spiegarmi il significato di quegli anticorpi, di quegli asterischi, di quei puntini nella risonanza.
Quando entravano io ero sempre a letto, da un lato ostentavo sicurezza e tranquillità, dall’altro guardavo altrove e trattenevo il respiro mentre il mio cuore pulsava così forte da sembrare una batteria durante un concerto punk.
Indietreggiavo nel letto, quasi mi accovacciavo mentre loro procedevano verso di me disponendosi in semicerchio.
I medici in prima fila con aria grave, gli specializzandi un passo indietro che sfogliavano con attenzione la mia cartella clinica.
Uno di quei giorni non riuscì più a controllarmi.
Iniziai a fissare uno dei medici, quello che non lesinava mai un sorriso o una parola di incoraggiamento, come se fossi stato ipnotizzato.
Iniziai a piangere, coprendomi il naso e la bocca con le mani, perché provavo vergogna e paura in egual misura.
Lui posò una mano sulla mia spalla dicendo: “Seguirai una terapia e vedrai che avrai una vita normale come chiunque altro.”
Stamattina celebrando questo anniversario mi sono tornate in mente quelle parole, questa benedetta “vita normale come chiunque altro”.
Non so quale sia il concetto di “vita normale”, né come viva “chiunque altro.
In qualche modo credo di aver accettato di dover convivere con tutto: i miei prelievi del sangue, le risonanze magnetiche, qualche infezione occasionale, dermatiti ricorrenti, allergie stagionali: tutto il pacchetto che trascino qua e là per il mondo sfidando ogni giorno me stesso a trovare sempre quel coraggio, quella forza e quella pazienza per essere felice.
A volte inciampo nelle lamentele capricciose di un bambino spaventato, quello che indietreggia in un letto d’ospedale.
Altre volte mi rimetto in piedi a petto in fuori e riprendo a correre a doppia velocità con l’entusiasmo di chi non ha tempo e voglia di fermarsi perché c’è una vita meravigliosa all’orizzonte.
E non so se le vostre vite “siano normali come quelle di chiunque altro”, ma abbiamo solo questa davanti a noi e possiamo solo fare del nostro meglio.
Non è facile, non è per niente facile.
A volte occorre chiedere aiuto.
Altre volte è necessario farsi un pianto.
Spesso camminare da soli è liberatorio.
La musica può salvarti la vita innumerevoli volte e saprete sempre dove trovarla.
Qualcuno può provare a capirti, qualcuno può fingere di capirti, qualcuno può persino riuscire a capirti.
Ma siamo 7 miliardi sul pianeta e tra una pandemia e qualche guerra Dio mi sembra abbastanza occupato per preoccuparsi d’altro.
E quindi non ci resta che andare avanti.
Se anche tu vuoi condividere la tua storia su questo blog scrivi a blog@giovanioltrelasm.it
Grazie.
Bel messaggio. Forza e coraggio.
Personalmente credo che il dottore della frase fantastica non abbia idea di quello che dice, oppure si è dimenticato di aggiungere “La vita normale di chiunque altro … che ha i tuoi stessi problemi”!! Perchè se è convinto, come purtoppo, ahimè, capita spesso, che i normodotati abbiano gli stessi problemi nostri, allora ha sbagliato mestiere!
Ciao caro
Di ‘normale’ non c’ è proprio una mazza… A volte pensi che stai impazzendo ma poi ritrovi la pace
Musica, per un ascoltatore seriale come me è vitale.
In questo momento sto ascoltando “The Beautiful People” di Marilyn Manson, fa te… ci metterei anche quel tuo dottorino tra la Beautiful People del Marilyn, le beautiful del suo video.
Non mi piace il “Bisogna andare avanti”. Bisogna perché? Bisogna per chi?
Stavo per dire “Io, nonostante tutto, desidero andare avanti”. Ma non mi piace nemmeno quel “Nonostante tutto”. Io desidero andare avanti, anzi, io desidero proseguire, il mio viaggio, punto.
E’ cambiata la canzone, adesso è “Third day of a seven-day binge”, sempre del Manson, mi piace un casino…. ci sono punti in cui la batteria elettronica fa sussultare il torace.
Vedo cha anche il tuo Dio è distratto, come il mio, che è tipo quello di “Mezzo angolo del cielo” di Anna Oxa… “Dove sei?”.
Chiedere aiuto… io a tal proposito ho un nemico, il mio orgoglio… “Alterigia di chi troppo presume di sé”, ed è qui che capisco che invece non è così, la mia è “Vergogna”, che, se leggo, mi scrivono essere “Perturbazione penosa e umiliante di chi è consapevole d’aver commesso cosa da riportarne disonore, avvilimento e biasimo o beffe”.
Ma porca miseria, io non ho fatto niente, se non biasimare me stesso per qualcosa che non ho deciso né voluto.
Altra canzone, è appena cominciata ”Bamboo”, di Elder Island… “Find your happiness in this place, Stop reaching too far, Two lines of thought, Makes me wonder what I’m missin’ “. Cosa mi sto perdendo? L’occuparmi troppo del mio star male mi fa perdere tutto il resto.
Ci ho impiegato un po’ a scrivere quest’ultima frase, e infatti ne è iniziata un’altra… “A Step”, di Manu Delago e Pete Josef… “A step that you will never regret, A step that takes away your breath”. Si, ho fatto scelte faticose e altre non ne ho fatte per paura. La nemica peggiore.
Ah, adesso un’italiana: “Andrà tutto bene” di Levante. Che beffa!!! “È questo il futuro che sognavi per te?”. No.
Pensa, ne ho fatto pure un disegno… si si, al computer, si intitola “Is this the future you dreamed of?”. Una volta che ascolto una canzone italiana, ne traduco una frase in inglese, roba da matti. Mi piace.
Non è facile, non è facile… “Looking for the Rain“, di Unkle… “If your Judas be a man, I would kill you if I can”. Non so cosa intenda.
Uh mamma, adesso ne è iniziata una ‘tremenda’… “Still Smiling”, di Teho Teardo… “And somewhere down there, I’m smiling, Still smiling”… uh mamma… ma ha anche lui i suoi sensi.
Dai, pausa relax, “Tuur mang Welten” di Niklas Pascburg… niente testo, solo musica… riposo le dita.
E ora la più impegnativa, pur se canzonetta… “But until my moment comes, I’ll say, I, I did it all… I swear I lived”. Dai, gli OneRepublic, “I Lived”.
Bon, tolgo le cuffie (sono delle meravigliose circumaurali di qualità altissima… eh si… trovate usate su ebay, spedite da Berlino, fa te).
Torno alla mia vita normale, che non è come quella di tutti gli altri. Ma vorrei proprio vedere se quella di tutti gli altri è normale. Ho visto normali star peggio di me. Ed è bastato allungare una mano verso di loro per infondere il coraggio di provare a star meglio. Funziona anche con me, seppur così difficile avvicinarmisi.
Cavoli, mi viene in mente un’altra canzone! “En e Xanax” di Samuele Bersani! “Se non ti spaventerai, con le mie paure, un giorno mi dirai le tue e troveremo il modo per rimuoverle… tu hai l’anima che, io vorrei avere…”.
Vado a riascoltarla, subito…
Deiv
Che meraviglia Deiv, che meraviglia. Io ascolto e mi perdo in una musica molto diversa ma qs ha poca importanza. La tua onestà morale-intellettuale-umana di chiamare vergogna ciò che spessissimo anch’io vesto con l’orgoglio e l’alterigia mi ha fatto bene, mi ha connesso con ciò che è. Ci vuole coraggio e un po’ di incoscienza per guardare a domani con serenità. La forza sia la tua amica più intima e forte. Grazie a te e a Davide, un abbraccio
Non esiste la vita normale, come di chiunque altro, soprattutto davanti a una patologia con decorsi personalissimi. Esiste solo la resilienza
La tua storia è quasi un copia e incolla della mia…
Hai scritto parole che mi hanno toccato nel profondo.
Forse perché non ho mai raccontato a nessuno tutto ciò che provo quotidianamente e l’ho ritrovato nelle tue parole, forse perché il periodo del mio ricovero corrisponde al tuo, tre anni fa, o forse perché la musica per me è fonte di salvezza e leggere che spesso è così anche per te mi ha fatto sentire meno sola… o forse perché non riesco ancora ad accettare questa mia realtà.
Fatto sta che leggerti mi ha stravolta oggi, e mi ha fatto provare un turbinio di emozioni. Cerco sempre alcuno con cui parlare, qualcuno che possa capire, ma penso che nessuno possa veramente capire se non vive questa situazione, o almeno nessuno che viva “una vita normale come chiunque altro”, qualunque cosa questo significhi.
Grazie per le tue parole.
Grazie, Monica.
Parlare con qualcuno che possa capire è quasi un’esigenza quotidiana per me. Ho creato un cerchio magico fatto di persone che vivono a 5 ma anche a 500 chilometri da me, con le quali vivo un profondo legame e che sono il mio ossigeno nei momenti più bui
Dalla mia diagnosi è passato poco più di un anno, sono cambiata profondamente e ho imparato ad osservare veramente le persone. Credo di aver capito il significato di quelle parole, che anche a me sono state dette. Se ci guardiamo intorno anche la maggior parte degli “altri” ha dei problemi… siamo tutti sulla stessa barca. A volte é un pensiero che mi conforta, non sono l’unica a combattere ogni giorno per vivere al meglio, con la differenza che, mi permetto di dire, forse più di altri comprendiamo la bellezza di ogni momento che non è più scontato e che non sprechiamo! Concordo, non é per niente facile, anzi é durissima! Ma gettare la spugna é una condanna certa.