Visioni doppie

Uno dei sintomi più frequenti di esordio della sclerosi multipla colpisce la vista. Lo spieghiamo bene qui. Ma oltre le spiegazioni c’è la vita, e Marta ci fa entrare nella sua, con tutte le emozioni, la trafila degli esami, le incognite, le paure, la famiglia, i medici, la caduta agli inferi e la risalita. Un racconto toccante e poetico.

Mi accorgo che la luce del mattino dilata le pupille in maniera straordinaria, mentre il buio della notte toglie l’aria e tutto diventa attesa, di quel nuovo giorno. I minuti diventano ore, ma passano, perché il tempo si prende gioco degli uomini.

Finalmente il tintinnio della sveglia risuona nelle profondità più inaspettate del corpo. Quel suono fastidioso, ma cercato, voluto, invita a sollevare le palpebre. E sempre quel suono sbatte in faccia la realtà e pone fine al magico momento. Tutto sembra fermarsi in un istante eterno. La speranza inghiottita, fino all’ultima goccia, ancora due, ancora due i volti che appena trapelano dalla fievole luce che irrompe con imponenza dai fori delle persiane. E quegli occhi che avrebbero voluto vedere all’unisono, quegli occhi che avrebbero voluto assaporare l’estate, si riempiono di un liquido caldo e salato, la voce rimbomba nel fiume di pensieri che si affollano: «Sei sveglia?», mi affretto ad asciugare le lacrime, che spingono forte, facendosi spazio in un tempo che non appartiene più a nessuno.

«Vieni qui rimaniamo ancora un po’, i bambini dormono ancora», faccio fatica a distinguere il volto di mio marito, quello vero, la penombra è complice mi nasconde, mentre scorro le dita sugli occhi inondati, la sua voce copre il mio respiro ed io vorrei che non mi facesse quella domanda che trabocca dalle sue labbra.

«Hai provato, beh allora, come vedi?», invece quelle parole cadono come sassi su di me: «Nessun cambiamento, continuo a vedere doppio» cerco di usare una voce ferma e sicura, mentre dentro tremo e soffoco i singhiozzi: «Il medico ha detto che ci vuole tempo gli occhi sono sotto stress», il peso lo raccolgo tutto dentro.

«È una settimana e ancora niente», faccio finta di non aver sentito e lo invito ad iniziare la giornata: «Amore, adesso ci tiriamo su».

Il tono cambia, la sua mano mi trattiene: «Adesso sei mia» sussurra ed io mi perdo in quell’abbraccio, nella speranza che l’incubo si trasformi in sogno.

Anche se in ritardo sulla tabella di marcia riusciamo a far colazione e coccolare i nostri cuccioli prima di andare a lavoro.

Con difficoltà riesco a nascondere il peso. In questa settimana ho capito tante cose che in passato ho sottovalutato. Sarebbe quasi ridicolo dire: «Guardo con altri occhi». Cerco di regalare a mio marito il meglio di me, e lo stesso faccio con i bambini.

Da quando il medico con molto garbo si è  espresso: «Lo sdoppiamento della vista potrebbe dipendere da qualcosa che si è interposta tra il nervo ottico e il bulbo oculare» i dubbi hanno preso il sopravvento, sentivo che quel “qualcosa” poteva essere decisivo per il mio futuro. 

Fino ad allora non avevo mai pensato che il futuro potesse avere dei confini. Da quel momento prendevo consapevolezza di quanto fosse fragile il filo su cui reggevo. Guardare allo specchio la mia immagine sdoppiata mi spaventava. Due donne, due me, per coordinare i movimenti delle mani verso il viso, mi costringevo a chiudere un occhio, ancora peggio quando di fronte c’erano i bambini: «Mamma, facciamo l’aereo con il cucchiaio, ed io faccio l’aeroporto con la bocca», allora la pioggia cadeva battente su ogni parte del mio corpo. Con la pelle che si increspava, umida di sudore per la paura di non farcela ad atterrare nell’aeroporto, mi impegnavo per esaudire il desiderio. La coordinazione è diventata per me la cosa più complicata al mondo.

A destarmi dai pensieri arrivano parole a volo e un bacio schiacciante sulle labbra: «Allora passo a prenderti dopo il lavoro e andiamo direttamente all’ospedale», con la testa già altrove annuisco e ricambio il bacio. Dopo qualche minuto il campanello alla porta annuncia l’arrivo di mia madre, che come al solito ha le curve del viso già protese verso un mare di domande. Faccio appello al ritardo e rimando ogni cosa. Abbraccio i miei due bambini come se fosse l’ultima volta e scappo.

Il problema di arrivare in ufficio si fa pesante. Guidare con occhi che hanno vedute diverse lo trovo entusiasmante.

Ho sdrammatizzato con la mia collega, che sopporta i miei sfoghi «Catia, due, capisci? Due auto, due chiavi, due penne ed io quale prendo? Qual è quella giusta?», le grido: «Ho dovuto guidare con un occhio chiuso, così lavorerò tutta la mattina e così ho abbracciato i miei bambini, maledizione!», Mentre Catia mi stringe, sfugge qualche lacrima, che si asciuga sulle mie ultime parole prima di iniziare con il lavoro: «Nel primo pomeriggio ho il verdetto e speriamo che la risonanza dica di più della TAC».

Il tempo, anche se dilatato per me, è riuscito a passare ed eccomi a due passi dal futuro, a due passi dall’attraversata. Accanto a me, mio marito, mano nella mano, il silenzio che ci racconta, a occhi bassi, bisbiglio: «Ho paura, ho paura di aver poco tempo ancora e di lasciare tutto e mi sento uno schifo, mi sento in colpa, i bambini hanno bisogno di me e …. », mi stringe la mano più forte:  «Anche io ho bisogno di te e tanto». La figura di una donna interrompe lo sciabordio dei nostri pensieri: «Venga signora, tocca a lei». Ci salutiamo, siamo in piedi uno difronte all’altra, le parole non hanno voce, ma dicono tutto e in quel grido soffocato ci sono i ricordi del passato che come flash tornano alla mente, poi c’è il futuro “di carta” e la paura soccombe come tempesta sui nostri corpi, quelle gocce di pioggia sono aghi che penetrano la pelle e sgualciscono la carta fino a strapparla. Intanto le nostre labbra si sfiorano, attimi eterni. Ci separiamo.

«Signora può indossare questo e lasciare là i suoi vestiti …» parole che risuonano nella testa, comandi e indicazioni. Automa, sono solo un automa, tutti molto gentili mi spiegano che resterò chiusa per un po’ nello scatolone di ferro e sentirò tanti rumori. Mi stendo su un lettino con nastro che mi trasporta all’interno della scatola. Nelle mie mani un piccolo cilindro, dovrò premere il pulsante all’estremità, nel caso mi sentissi male, nel caso la claustrofobia mi assalisse.

Il rumore assordante di un portello che si chiude mi fa prendere coscienza di dove mi trovo. Fuori dalla stanza un po’ di medici esaminano il mio cervello più tardi saprò che hanno anche esaminato il mio midollo spinale. I suoni sono penetranti e mi stordiscono. Saprò dopo che ho resistito più di 80 minuti in quello spazio di tempo, dove a occhi chiusi ho rivisto “me”. È stato in quell’angolo cieco, che ho capito che nelle mani stringevo la vita ed era ancora tutta mia, al di là di quanto sarebbe durata, ne avrei potuto fare qualcosa di straordinario.

E continuai a pensarlo anche quando il medico mi disse: «La mielina in alcuni punti è infiammata, in altri addirittura irrecuperabile».

Uno spettacolo il nostro cervello, sembra un circuito elettrico, la mielina sarebbe quella guaina che riveste i fili elettrici e quando si rovina, i fili non protetti fanno contatto tra loro, più o meno quello che sta avvenendo nella mia testa.

Nascondendosi dietro lenti appannate, per sembrare solo e soltanto un medico, quell’uomo dinanzi  mi spiegò : «Non sappiamo quando ci sarà un altro attacco e di che intensità, e soprattutto che “filo” toccherà, la sclerosi multipla è una malattia demielinizzante e progressiva, ci affidiamo alla sperimentazione e alla ricerca».

La voce dell’amico di fronte, perché un vero medico lo diventa quando ti accompagna nell’attraversata, fu leggermente tradita dall’emozione che accolsi in un abbraccio tra lacrime e speranza.

E nella consapevolezza di quelle parole e di quel momento ho deciso di ricominciare proprio da lì.

Ho deciso di nascere di nuovo, di dare nuove dimensioni alla mia vita, di essere il mio passato, di assaporare il presente e di guardare il futuro con la curiosità e il desiderio di renderlo unico e meraviglioso.      

Marta

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