A me il piacere di intervistare, Cinthia Farina – Responsabile del Laboratorio di Ricerca di Immunobiologia delle malattie neurologiche presso l’Istituto di Neurologia Sperimentale (INSpe), Dipartimento di Neuroscienze del IRCCS San Raffaele. Solo il titolo mette in soggezione. Sono partito dandoci subito del tu, certo che l’aver dato la sua disponibilità ad AISM e al blog di farsi intervistare, era già sufficiente per considerarci se non amici, buoni conoscenti.
Nata a Salerno e cresciuta a Milano, di definisce europea, poiché la famiglia materna e paterna ha radici e propaggini in tutta Italia elei ha vissuto diversi anni in Germania. Ha 42 anni, un marito e due figlie. Cinthia è una persona piena d’energia e – come lei stessa si definisce – affetta da una patologia molto particolare, ovvero una curiosità insanabile: «unita a metodo, sacrificio e sano realismo, sono state le armi e le qualità che le hanno permesso di diventare ricercatrice», dice. Io a giudicare dalle sue risposte non posso che condividere queste parole.
Quali sono i tuoi hobby?
«Come per molte donne lavoratrici sposate e con figli, è difficile trovare tempo per hobbies. Ho la fortuna di poter fare il lavoro che mi piace, però non è un lavoro da impiegato e richiede una disponibilità pressoché illimitata, ben oltre il convenzionale orario da lavoro. Ogni volta che ho un momento libero da impegni professionali e familiari, leggo».
Mi descrivi una tua “giornata tipo?”
«Sveglia alle 7, colazioni per figli e gatti, uscita di casa alle 8 per portare a scuola la bambina più piccola ed andare a lavoro. Tangenziale di Milano, coda (non hanno ancora fatto la corsia preferenziale per gli scienziati!). In ufficio, la giornata è intensa ed è fatta di molto lavoro al computer, riunioni e seminari. Devo gestire e risolvere parecchie decine di email tutti i giorni. Ormai la maggior parte dei contatti professionali sparsi nel mondo viaggia tramite questo strumento, che ha facilitato enormemente le collaborazioni e gli scambi di informazioni».
Qual è il tuo compito in particolare?
«Come responsabile di laboratorio, ho l’onore (e l’onere) di decidere le linee scientifiche da sviluppare e di tradurle in piani di azione concreti. Questo non avviene per caso, ma tramite l’integrazione continua delle proprie conoscenze e delle proprie esperienze con quelle degli altri. È importante infatti il quotidiano scambio con i miei collaboratori più giovani, il cui compito è di mettere in pratica le idee e di verificarne la validità, con i miei colleghi al San Raffaele, che rendono l’ambiente scientifico estremamente vivace e costruttivo, e con i miei collaboratori esterni. L’aggiornamento è fondamentale in questo lavoro, e molto tempo va nello studio al fine di imparare dal lavoro degli altri. La disponibilità di biblioteche elettroniche on line fa sì che si possa seguire in tempo reale il fronte dell’onda della conoscenza e di utilizzare queste informazioni per sviluppare al meglio i propri progetti ed idearne di nuovi. Poi bisogna inesorabilmente adeguare gli obiettivi alle disponibilità economiche, e quindi è mio compito applicare il più possibile per grant di ricerca e gestire il budget. Infine ci sono attività “di supporto” alla scienza, come gestione personale, ordini, rapporti con le amministrazioni».
Ci credo che il tempo non ti basta
«In linea di massima cerco di non uscire tardi da lavoro. Ho da recuperare una figlia dalla tata, preparare la cena e rivolgere attenzioni alla famiglia. Però, devo ammettere che spesso riprendo a lavorare dopo cena».
Cosa ti ha portato a fare la ricercatrice? Era un tuo sogno da bambina o è una passione scoperta per caso o che altro?
La curiosità è stata il motore che mi ha portato a questo lavoro. Ho scelto di studiare biologia all’università con il fine di diventare ricercatrice, affrontando le difficoltà dicendomi che se altri erano riusciti, allora avrei potuto farcela anch’io. Una determinazione che da sola comunque non sarebbe bastata se non fosse stata accompagnata dall’apprendimento di metodo, sacrificio e sano realismo.
Quali sono le prospettive di un ricercatore in Italia oggi?
Domanda difficile. La risposta scontata sarebbe: avere prospettive vuol dire riuscire a guardare lontano; la situazione italiana è tale per cui i progetti (e le persone che vi lavorano) hanno un orizzonte massimo di uno o due anni. Quindi fare una programmazione chiara della carriera e degli impegni a lungo termine è impossibile.
Di fatto però per la mia generazione è sempre stato così, non abbiamo mai vissuto il tempo delle “vacche grasse”, e ritengo una fortuna che la mentalità stia cambiando e miri a premiare il merito (almeno nelle intenzioni se non sempre nei fatti). Non è più accettabile l’idea che basta dover lavorare bene solo alcuni anni in modo da raggiungere una posizione che garantisca tranquillità fino alla pensione. L’obiettivo del ricercatore, come di qualsiasi altro lavoratore, deve essere di seguire i propri interessi e fare bene, confidando che sarà sempre e comunque utile. Per me è stato così. E’necessario chiaramente mettersi continuamente in gioco, investire su sé stessi e non darsi confini geografici. Le esperienze all’estero sono enormi opportunità di crescita e non periodi di esilio.
In Italia mi sembra si stia pagando troppo per gli sprechi del passato e di ancora molto presente, il contrasto con la generazione che ha goduto e gode tuttora di privilegi indipendentemente dai meriti esiste. Inoltre, è utopico pretendere che la scienza porti a prodotti spendibili nell’immediato e di alto livello con poche limitate risorse economiche a disposizione. Inevitabilmente in questa maniera vengono sacrificati i progetti di più ampio respiro per cui il “pareggio di bilancio” è difficilmente raggiungibile. Se l’obiettivo europeo è di distinguersi a livello mondiale per l’innovazione, allora mancano in Italia politiche adeguate di sviluppo in tal senso. Certamente meritorie sono le iniziative a sostegno dei giovani ricercatori di alcune agenzie che finanziano la ricerca. Uno dei miei collaboratori ha una borsa di addestramento FISM, il che gli ha consentito di far parte di un progetto di ricerca che ha portato a degli ottimi risultati. Si tratta di iniziative rare e difficilmente si riesce a collocarle all’interno di un discorso a lungo termine, anche se il requisito del risultato è raggiunto.
Ho visto dal tuo Curriculum, hai lavorato a Monaco in Germania, ti si può definire un cervello in fuga? Sei partita perché in Italia non trovavi opportunità? Ti è dispiaciuto partire?
In realtà sono andata in Germania al seguito di mio marito, al quale era stato offerto uno stage a Monaco. Io avevo appena avuto la prima figlia, ho accolto positivamente l’idea pur andando incontro all’ignoto. In Italia lavoravo con una borsa di studio all’Istituto Tumori di Milano con prospettive pari a zero ma ottimo livello di scienza prodotta. Infatti, quando ho presentato il CV al Max-Planck-Institute di Neurobiologia, sono stata chiamata nel giro di 24 ore per un colloquio e poi mi hanno subito offerto di lavorare con loro: niente concorsi o trafile istituzionali per scongiurare clientelismi, semplicemente il riconoscimento e l’interesse nelle competenze che io portavo.
Sei rientrata in Italia solo nel 2010 grazie al progetto del ministero della salute “Rientro dei Cervelli” : è come se finalmente avessero valorizzato il tuo lavoro?
Nel periodo in Germania abbiamo sempre vissuto puntando sull’integrazione invece che sull’arroccamento nella propria nazionalità. E così quegli anni sono stati bellissimi e ricchi per me, il mio lavoro e per
tutta la mia famiglia. Per la professione è stata la valorizzazione del mio lavoro da parte dei miei mentori tedeschi a consentirmi di pormi in Italia come ricercatore indipendente. Non sono scappata dalla Germania, ho voluto dare un’altra chance all’Italia.
Generalmente si immagina il ricercatore in camice bianco seduto dietro un microscopio, che può apparire l’opposto di un lavoro “vivo”. Cos’è che lo rende appassionante per te ?
Avrai capito che non è un lavoro che si fa da soli, anzi e’ un lavoro di grande relazione. Inoltre, nell’ambito della biologia io ho avuto sempre molto interesse per gli studi sulle patologie umane e non per la ricerca di base. I miei obiettivi sono contribuire a scoprire i fenomeni che causano o contribuiscono alla malattia e sfruttare queste conoscenze per verificare nuovi approcci terapeutici. La consapevolezza che ci sono molte persone che in un futuro possano beneficiare del lavoro mio e dei miei colleghi è di forte stimolo. In più, io ho bisogno della collaborazione dei pazienti, poiché l’approccio che utilizzo è quello della medicina traslazionale e parto da osservazioni legate alla patologia umana
Qual è stato il momento più bello del tuo lavoro?
Ne ho avuti per fortuna tanti. Senz’altro i due giorni in cui mi sono stati conferiti i premi internazionali: il premio della European Charcot Foundation come miglior giovane ricercatore per la sclerosi multipla e poi il premio per la miglior tesi di dottorato della Ludwig-Maximilians-University di Monaco. Questi riconoscimenti sono stati del tutto inattesi. E’ stato bello vedere apprezzato il proprio lavoro secondo pure logiche di rigore e di merito.
E il peggiore?
Quando mi sono trovata nella situazione di dover difendere il mio lavoro dall’invidia di altri.
Da quanti anni studi la SM, cosa ti ha portato a lavorare in questo ambito?
Ho iniziato a studiare la SM in Germania. Spinta dal mio interesse nell’immunologia umana ho scelto il Dipartimento di Neuroimmunologia al Max-Planck diretto dal prof Wekerle e dedicato allo studio della SM e del suo modelo animale.
Ti sembra un puzzle nel quale tu puoi mettere a posto qualche pezzo?
Il puzzle è molto complesso ma con il contributo di tutti (compreso il mio) si sta arrivando ad una sempre maggiore risoluzione e chiarezza.
Frequenti persone con SM? Se si mi racconteresti in che relazione sei con loro?
Nelle relazioni personali e familiari non ho occasione di frequentare persone con SM. In ambito professionale, avevo più contatti in Germania, poichè alcuni pazienti venivano in laboratorio più volte per permetterci di prelevare del sangue per i nostri studi. In Italia per ragioni di organizzazione e strutturali, questo contatto è purtroppo venuto meno.
Nel sito del San Raffaele ho trovato anche gli ambiti di ricerca in cui operi, la metà non li ho capiti e l’altra ho finto di capirli, ma so che operi nel campo della l’immunobiologia della malattia neurologiche, mi potresti spiegare cos’è?
Mi interessa l’interazione tra il sistema immunitario e sistema nervoso. Si è a lungo pensato che questi due compartimenti fossero isolati, che non potessero interagire e che ciascuno facesse uso di un proprio linguaggio e di proprie popolazioni. In realtà, ora è chiaro che questi limiti non esistono in maniera così stringente e molti mediatori di comunicazione sono condivisi. E’ importante definire le basi di queste interazioni per capire gli effetti delle alterazioni associate alla sclerosi multipla. Rispetto ai primi ricercatori che si trovavano davanti ad un mondo inesplorato, il compito ai nostri tempi è sempre più mettere in connessione conoscenze derivate da vari tipi di scienze. Nei miei progetti prendiamo in considerazione informazioni dal mondo dell’immunologia, neurobiologia, istologia, medicina, patologia, farmacologia, genetica, biologia molecolare e cellulare, anatomia, statistica, bioinformatica. La sclerosi multipla è una patologia complessa e solo integrando approcci diversi si riesce ad arrivare a risultati significativi.
Ed ora il momento che aspetto da una vita, la domanda marzulliana, fatti una domanda e datti una risposta.
Si può fare di più per la ricerca italiana? Sì, investire di più. Nel frattempo, considerate le limitate risorse, non bisognerebbe disperderle ma fare delle scelte guidate esclusivamente dal rigore e merito.
Qualcuno ti ha mai ringraziato per il lavoro che svolgi, per le persone con SM?
Certo che sì. Ricevo spesso messaggi da persone con SM che mi incoraggiano. Purtroppo i tempi della scienza non sono così rapidi come si augurerebbero le persone che portano il peso della patologia. I loro messaggi da una parte mi danno soddisfazione, perchè vedo che il mio lavoro viene compreso e ritenuto utile anche da non-scienziati. Dall’altra, mi carica di sempre nuova responsabilità nei loro confronti e mi impone di non perdere tempo.
L’ho gia’ scritto a proposito di altre interviste di questa serie, sono un ‘incontro ravvicinato’ con i ricercatori inusuale che apprezzo tantissimo. Like, like, like.
Bella..vera!! 🙂
Mi è piaciuto questo approccio easy,
e Cinthia è davvero carica, di sicuro è nel movimento!!
Vorrei fare una domanda alla dottoressa, come pure ad altri ricercatori…Magari sarà banale e l’avranno fatta già in tanti…”Hanno mai pensato di studiare le cause della SM correlandole agli ormoni? specie quelli tipicamente femminili quali progesterone o prolattina….”
Ciao Giulia,
ho girato la tua domanda alla Dott.ssa, ecco la sua risposta!
spero risponda in maniera esauriente alla tua domanda!
Cinthia Farina:
Il riferimento è al ruolo degli ormoni sessuali nella sclerosi multipla ed è giustificato per esempio dall’osservazione che durante la gravidanza le donne con SM hanno una ridotta frequenza di attacchi.
Ci sono già in merito una serie di informazioni ottenuti da studi nell’uomo o nei modelli animali che sottolineano l’attività immunomodulante e/o neuroprotettiva degli ormoni sessuali. Per quanto riguarda gli estrogeni (che aumentano in gravidanza), studi epidemiologici non hanno mostrato evidenze a supporto di un ruolo importante della contraccezione orale nella suscettibilità alla SM. Tuttavia, uno studio pilota ha mostrato un effetto sull’attività di malattia della somministrazione di estriolo a dosi che inducevano livelli di ormone simili a quelli naturalmente presenti nelle donne in gravidanza. Sono inoltre in corso studi clinici sulla terapia della SM con estrogeni, come ad esempio un trial clinico che mira ad esaminare gli effetti dell’estradiolo e progestinici nel prevenire gli attacchi da SM nel periodo postpartum. A breve usciranno i dati in merito.
La prolattina sembra avere un ruolo ambivalente, in quanto se da una parte pare possa promuovere la rimielinizzazione (il che è bene), dall’altra stimola le risposte immunitarie (da evitare). A supporto di un effetto nocivo da prolattina, alcuni studi suggeriscono che gli attacchi clinici siano associati ad alti livelli di prolattina.
Inoltre, in uno studio italiano coordinato dal Prof. Pozzilli, la misurazione degli ormoni sessuali in uomini e donne con SM ha rilevato un minor livello di testosterone nelle donne con SM. Questi bassi livelli di testosterone correlavano con una maggiore attività di malattia rilevata in risonanza magnetica, indicando un ruolo benefico del testosterone. In effetti, la somministrazione di testosterone risulta protettiva nei modelli animali ed uno studio clinico pilota in uomini con SM sembra indicare un effetto positivo sull’atrofia cerebrale. Mancano tuttavia studi clinici con coorti più numerose di pazienti.
Quindi, poiché gli ormoni sessuali controllano numerosi processi complessi, ci sono ricerche in corso volte a raccogliere ancora informazioni sui loro effetti distinti sul sistema immunitario e nel sistema nervoso centrale, al fine di sviluppare terapie che mimino gli aspetti protettivi della gravidanza.
Ci sono diversi ricercatori, anzi ricercatrici nella pagina Aism , che percorrono vie diverse per arrivare ad una qualche conoscenza sui dintorni della sm. LA mia sensazione su questa intensa ,e per ora inconcludente, attività di ricerca ? Deprimente . Esprimono il loro impegno in tante direzioni affascinanti (per loro) ,fanno ipotesi .. La ricerca deve essere come una avventura,che prende il ricercatore come una droga. Anche se i temi dominanti sono : mancanza di fondi e tempi lunghi e vaghi per dei risultati. Io però sono qua , con la vecchia pastiglietta del neurologo (del s.Raffaele) nemmeno sfiorata dal sorridente entusiasmo e dalle promesse di nuovo di cui parlano